A ognuna è data la sua penitenza, qui in convento, il suo modo di guadagnarsi la salvezza eterna. A me è toccata questa di scriver storie: è dura, è dura. Fuori è assolata estate, dalla valle giunge un vociare e un muover d’acqua, la mia cella è in alto e dalla finestretta vedo un’ansa del fiume, giovani villani spogliati che fanno il bagno, e più in là, dietro un ciuffo di salici, ragazze, che anch’esse tolte le vesti scendono a bagnarsi. Uno, nuotando sott’acqua ora è sbucato a vederle ed esse se lo indicano con gridi. Potrei esserci anch’io, e in bella comitiva, con giovani miei pari, e fantesche e famigli. Ma la nostra santa vocazione vuole che si anteponga alle caduche gioie del mondo qualcosa che poi resta. Che resta… se poi anche questo libro, e tutti i nostri atti di pietà, compiuti con cuori di cenere, non sono già cenere anch’essi… più cenere degli atti sensuali là nel fiume, che trepidano di vita e si propagano come cerchi nell’acqua… Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto. Forse è meglio così: forse quando scrivevi con gioia non era miracolo né grazia: era peccato, idolatria, superbia. Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po’ d’ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa.
Allora, volete che vada dalla madre badessa a supplicarla che mi cambi d’opera, che mi mandi a tirare l’acqua dal pozzo, a filar canapa, a sgranare ceci? Non serve. Continuerò secondo il mio dovere di monaca scrivana, meglio che posso.
Ora mi tocca di raccontare il banchetto dei paladini.
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cap. VII.
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