Pubblicato su Piemonte Mese – Novembre 2007
LA COMPAGNIA DEL BIRUN
Peveragno è un paese di 5000 abitanti alle falde della Bisalta, famoso per le fragole e i frutti di bosco. Qui l’Associazione culturale e teatrale “Compagnia del Birùn” dal 1991 porta avanti con successo un progetto di recupero della tradizione che si affida al teatro come mezzo animazione e di espressione della cultura popolare. All’inizio, l’intenzione era quella di riportare in scena le gesta del Birun, ovvero del Maresciallo di Francia Charles de Gontaut de Biron, decapitato nel 1602, popolare maschera del carnevale peveragnese. Ma poi le persone coinvolte nel progetto da Rita Viglietti, presidente, co-fondatrice e anima dell’associazione, ci hanno preso gusto e da ben 16 anni realizzano spettacoli, incontri, momenti di aggregazione, senza tradire lo spirito iniziale fatto di grande partecipazione corale, recupero della tradizione del territorio e restituzione di dignità al dialetto di ceppo d’oc. E allora sono venuti “Mafalda”, “La Pastorale dei Santon di Provenza”, “La merla bianca”, “Mariabissoula”, “Mistral”, senza dimenticare “Le miserie’di Monsù Travet” del peveragnese Vittorio Bersezio.
Ho incontrato la dottoressa Viglietti e le ho fatto qualche domanda.
L’ultima messa in scena delle disavventure del Birun risaliva al carnevale del 1965. Ha qualche ricordo personale?
R. Il Birùn è una canzone sceneggiata di origine transalpina che ci è giunta nella versione occitana; era una canzone proibita perché sgradita ai potenti e perciò era permesso cantarla solo nel periodo di trasgressione lecita del carnevale. Non ho un ricordo della rappresentazione del ’65, ma di una precedente, forse degli anni ’50. Ero piccola, in braccio a qualcuno, e ho il ricordo nettissimo dell’emozione provata quando al Birùn viene troncata la testa. Nella finzione scenica si udiva solo il colpo d’ascia del boia dietro le quinte, ma rivedere il protagonista in carne ed ossa sul palco, alla fine, mentre riceveva gli applausi mi ha comunicato oltre la gioia anche la prima consapevolezza della forza e della magia del teatro.
Come è nato il desiderio di riscoprire e far rivivere le vicende di questo sfortunato personaggio storico?
La canzone di Birùn racconta di una partita a carte alla corte di Francia dove Birùn è accusato ingiustamente di barare e di tradire il suo Re e viene condannato a morte. Egli è amico del Re, lo ha aiutato a salire al trono e potrebbe aver salva la testa se si dichiarasse colpevole, invece rivendica la sua innocenza e la sua lealtà rifiutando la grazia con una battuta: “Ounda i é pa’ ëd coulpa i é pa’ ëd përdoun”, dove non c’è colpa non c’è perdono. Mi sono riconosciuta in questo atteggiamento dignitoso e orgoglioso, e il fatto che la gente di Peveragno si fosse scelto un simile personaggio come maschera rappresentativa mi ha spinta con un gruppo di amici temerari a rimettere in scena lo spettacolo. Era il 1991: reduce da un istruttivo viaggio in Catalogna, potevo mettere a frutto le mie convinzioni, le mie ricerche e le mie esperienze. Dopo anni di rincorsa a modelli di divertimento di importazione esterna, riproporre il Birùn è stata una sfida vincente che ha dimostrato come una tradizione originale possa rivivere sempre nuova nel tempo e avere la validità di una classico. Sarà minoritaria nei confronti di altre produzioni di massa, ma non per questo non ha il diritto di esistere, e deve rivendicare con forza le sue ragioni. Per il paese è stata una scossa salutare, una sferzata di energia che ha ridato fiducia e voglia di mettersi in gioco, in vari campi.
Dopo il felice esperimento del Birùn, avete continuato con un progetto ambizioso come “Mafalda”
R. Mafalda è un’altra canzone popolare e un altro esempio di come la nostra storia collettiva sia una miniera di tesori da esplorare. L’emigrazione verso l’Argentina, raccontata per lo più in termini di dolore e miseria, nei racconti di mia nonna e di altre donne del paese era fatta anche di avventure, incontri, voglia di sfuggire a oppressioni non solo economiche. La grande produzione americana ha diffuso nel mondo l’epopea del Far West, Mafalda è stato il bellissimo squarcio dell’epico Far West nostrano, quello che ci ha visti protagonisti in Sud America, ricchissimo di spunti ma davvero poco sfruttato.
Come ha fatto a convincere tante persone del suo paese a salire sul palcoscenico?
L’associazione “Compagnia del Birun” conta, oltre alle 5 donne del direttivo, un’altra decina di soci collaboratori. Per coinvolgere le persone organizziamo corsi di musica, danza, laboratori teatrali e una rassegna annuale di saggi, spettacoli, concerti e animazioni intitolata “Assaggi” in cui promuoviamo opere, temi e talenti funzionali o connessi alle nostre produzioni. Inoltre, quando presentiamo un progetto teatrale, cerchiamo sempre di strutturare intorno una animazione pertinente che prevede figuranti in costume. In questo modo coloro che non vogliono impegnarsi nello spettacolo vero e proprio possono partecipare come presenze sceniche nel paese. Per Mafalda le vetrine dei negozi erano un museo diffuso di cimeli sull’emigrazione Oltreoceano e sugli anni ’20. C’erano la musica, i balli, i costumi di quegli anni e, a salutare la nave in partenza, la banda e i bambini delle scuole che sventolavano le bandierine della Regia Marina. Per i “Santon” c’era lo spettacolare corteo notturno dei Re Magi, per “Mariabìssoula” quello medievale dei Signori di Forfice, e così via…
Utilizzate anche attori professionisti?
Il teatro che facciamo non è del genere filodrammatica dilettantistica ma si basa su progetti culturali frutto di ricerche, passione e determinazione. Gli interpreti necessitano di una preparazione che solo un professionista del teatro è in grado di dare. Alla regia forniamo l’idea, il materiale da sceneggiare e gli attori e chiediamo che ci venga confezionato lo spettacolo secondo le nostre esigenze che sono quelle di valorizzare il patrimonio culturale, umano e anche paesaggistico della nostra terra.
Lei è una storica, una ricercatrice, una filologa e per tanti anni ha vissuto e insegnato a Torino, ma il suo cuore non ha mai lasciato Peveragno. Quale importanza riveste il recupero della memoria locale in questo mondo che ormai sembra non avere più confini?
Gli antichi greci, che se ne intendevano, dicevano che la Memoria è la madre di tutte le Muse compagne di Apollo, il dio della poesia; è quella parte di noi che ci consola e ci avvicina agli dèi. La memoria prima che ci è data in sorte e che portiamo con noi è quella che affonda le proprie radici in un luogo, in un tempo, in una situazione. Ricordare è conoscersi e conoscerci a partire da questa constatazione comune a tutti. Crescere alimentandosi di aria, di luce, di nuove esperienze, non vuol dire necessariamente privarsi della linfa sotterranea che dà la forza di confrontarsi anche con fulmini e tempeste. In una prospettiva umanamente accettabile penso che anche oggi sia meglio non essere fuscelli in balìa del vento più o meno globale che sia.
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