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Che cosa è l’erba?
Che cosa sono le foglie?
E quel solitario filo di ragno
argenteo nel raggio
che penetra la folta chioma del còrilo?

Che cosa è il gabbiano
che imbianca l’azzurro
scivolando senza sforzo apparente?

E il trillo del merlo,
il canto del rigolo e del fringuello?

Sono io che riempio tutto di gioia
o sono gli stessi rami e foglie del faggio
che godono nell’essere poggio e casa
per passeri, scriccioli e gazze?

Nessuno ha mia ammirato
questa bellezza primaverile
e anche per me è la prima volta.

Allora, che cosa è l’erba?
È la mia creazione?
O già prima esisteva e io non la vedevo?

Erba di maggio
trema nel dolce vento
lieve sopore

Danzare

 

Mi arrendo:

non voglio più capire

solo danzare

danzare danzare danzare

fino a perdermi

nel canto dell’inconoscibile.

Felicità

C’è uno spazio piccolissimo
– fragili confini –
dove ancora può crescere
la felicità.
Ne è rimasta una briciola,
un seme infreddolito.
Posso sperare?
Sì.

Edgar

Edgar su una panchina
a Baltimora in delirio
ubriaco disfatto dall’orrore.
Edgar fratello mio
cuore marcio di dolore
per tutte le cose che
ti stanno distruggendo
la tubercolosi le malattie
la povertà la miseria
l’alcol la droga.
Edgar fratello mio
siamo dei sopravvissuti
e i nostri mali non hanno inizio né fine:
ogni giorno attraverso con te
abissi di orrore
e il cappio e il coltello
e la lama e il vuoto
sono le nostre consolazioni.
Edgar è venuta la polmonite
si sono portati via i polmoni
il cuore e le interiora pulsanti di sangue
ma tutti gli incubi dell’inferno
sono poca cosa
rispetto all’oppressione che sentiamo
nell’anima nostra.
E noi volevamo soltanto amare
soltanto amare, amare, amare.

Autunno di novembre
la terra respira nebbia
dal cielo una piccola pioggia
che sembra rugiada.
Tutto è fradicio e molle d’acqua
e il fango è sottile, vischioso,
come ghiaccio appena ghiacciato.
Dai rami pendono grandi gocce luccicanti
che riverberano il cosmo intero
e la rovina delle foglie è una dolce benedizione.
Che tempaccio direbbe qualcuno
ma io mi tuffo come dentro un mare.
Smanio di gettarmi in questa guazza,
con un paio di gambali e una vecchia giacca,
senza cappello, e le gocciole
come collanine di perle ai capelli.
Le grandi ragnatele
nascoste fra erba e erba
ora finalmente appaiono, svelate,
anch’esse inanellate di cristalli fluorescenti.
Il ragno riposa in una piccola crepa asciutta
sotto il fogliame secco della cicoria.
Per il resto, è un tripudio
di tutti i verdi colori del mondo.
E, incredibilmente, tra la nebbia
e la pioggia persiste
il giallo e il rosso delle vigne,
solo un poco più opaco.

Vieni, vieni, mi chiama
la campagna.
Vieni, torna a casa.
Rifugiati qui e vedi
nel trascorrere delle ore
come cambia il livido colore
delle mie nebbie.
Quando torni? Quando vieni?
C’è tutta quest’acqua che ti aspetta
e tutte le piante grandi e piccole
e le erbe e i cespugli grondanti.
Vieni.
Affogati qui dentro.

Affogati.

Il tarlo

Il lento tremolo

intermittente mastico

del tarlo nei legni vetusti

il trik-trik lontano

sospeso e poi ripreso

per tutta la notte

l’anobio mio compagno

scavatore di ciechi intestini

prega con me.

Trik-trik trik-trik trik-trik.

La larva senza intelligenza

tutta dedita alla progenie

mastica senza sosta

l’arredo del mio mondo.

Mi tiene compagnia.

Mentre affogo in una solitudine insensata

accordo la mia preghiera

al suo devoto rodìo:

mi faccio più attenta

e conquisto il suo ritmo.

Cerco un’armonia consolatrice

che lenisca la mia originaria malinconia.

 

 

I tuoni scuotono i palazzi e si rincorrono lungo i viali

sull’orlo delle nuvole basse e nere e piene d’acqua

i tuoni non sanno che direzione prendere e riempiono il cielo.

Rannicchiati sotto i portici, i senzatetto si rigirano insonni

fra coperte umide perché l’umidità è spessa come un piatto freddo.

Il rumore delle auto che passano tra acqua e tuoni

è un rumore dolce, solitario, sperduto.

Forse questi temporali fuori stagione capitavano anche in un gennaio

di tanti anni fa.

Avevo diciotto anni e due maglioni addosso nella mia fredda camera

era notte e studiavo per l’interrogazione e fuori, nel buio

della campagna di gennaio, tuoni, scrosci d’acqua, malinconia senza fine,

solitudine che faceva venire il mal di stomaco, e una fame insensata.

Lasciavo per dieci minuti la trigonometria, la storia, la fisica,

e scrivevo una poesia al mio amore.

Ero sempre innamorata, avevo sempre un amore a cui dedicare poesie.

Fumavo una sigaretta.

Poi ricominciavo a studiare, e non capivo niente,

e i tuoni si rincorrevano nella valle e fuori era così buio

ma così buio, che non ho mai più conosciuto un buio simile.

 

Sollievo

tutti i luoghi che non potrò vedere

tutti i libri che non riuscirò leggere

tutte le cose che non potrò sapere…

ahi, mi dolgo e ne sento sollievo

Pianeta in caduta

pianeta in caduta (3)